In un tempo di CRISI del sentire EUROPEO l’unico fulcro dove far leva per aprire una nuova breccia attraverso cui guardare la bioetica non ruota sulla classica e constatazione della presenza, nella società moderna, di un “pluralismo etico” e della relativa impossibilità di trovare dei principi comuni per dedurre il giusto comportamento da osservare nella situazione concreta, ma sulla capacità di dialogare costruttivamente e di raggiungere un accordo di principio utilizzando il linguaggio comune della “dignità”.
L’intera struttura dialogica dell’accordo si costruisce sulla parola “dignità” ( nella Convenzione di Oviedo il termine viene ripetuto più volte), tanto da farla “…assurgere al ruolo di unico, possibile, autentico fondamento di una bioetica europea” [1].
Attraverso il codice della “dignità della persona” gli “stranieri morali” riescono a comunicare tra loro, decifrando reciprocamente i diversi linguaggi, e possono così raggiungere un accordo utilizzando questo minimo comune denominatore etico / giuridico.
Il terribile conflitto, vissuto da chi affronta queste problematiche, è tra la tutela dell’autonomia delle persone e della più ampia libertà della ricerca scientifica da un lato e dalla constatazione dell’impossibile insindacabilità delle scelte individuali e della ricerca scientifica nella società dall’altro. La sindacabilità delle scelte, individuali e scientifiche, deve essere garantita perché ogni persona non è sola e irrelata, ma è parte originale di un sistema sociale basato sulla pacifica coesistenza. La ragione principale di questo denominatore comune, dignità umana, è probabilmente da rintracciare nel sentimento d’umanità, comune bagaglio genetico – etico di tutti gli individui. Quest’affermazione è resa palese dall’atteggiamento che ognuno ha nel momento in cui viene a conoscenza della notizia su scelte estreme, compiute da individui stremati dal dolore, o su particolari ricerche tese alla scoperta dell’origine della vita e della sua stessa manipolazione: l’immedesimazione nel soggetto coinvolto, nei suoi familiari, o nell’oggetto dell’esperimento è immediata e spontanea. E’ questo comune sentire ad indicare la necessità di un intervento giuridico teso ad impedire, o arginare, la possibile offesa di beni fondamentali. Quello descritto in queste ultime righe può essere considerato il frutto di concezioni legate ad una visione religiosa della società, ma accanto ad essa un’altra si lega ed accompagna il ragionamento, forse più laica: sin dalla nascita ci troviamo inseriti in un contesto sociale organizzato in forma contrattualistica; siamo bombardati da una serie di insegnamenti, anche culturali, che dobbiamo imparare al fine di una nostra e generale convivenza. L’uomo è un individuo, indivisibile nella sua personalità, ma la sua natura è quella di un animale sociale: ha bisogno degli altri per vivere e per realizzarsi. Quando per una qualsiasi causa, naufragio o grave malattia, si trova solo riesce, causa istinto, a sopravvivere ma non a vivere; i suoi pensieri volano lontani nella memoria alla ricerca di un ricordo di relazione, oppure con l’immaginazione crea un alter ego con cui parlare.
L’uomo per vivere deve per sua intima natura convivere e per questo cerca in tutti i modi di creare una società organizzata, accettando di limitare quello che è a lui più caro: la libertà[2]. Le regole del vivere sociale, in comunità, sono un oggetto morto senza la vitalità dell’affidamento, componente ineliminabile dell’organizzazione.
Oggi, ancor più di ieri, avvertiamo l’esigenza di poter affidare agli altri noi stessi nella sicurezza che questi osservino le regole che la società si è data in modo da non aumentare il rischio presente nel quotidiano vivere. Senza affidamento i rapporti “inter-individuali” non hanno alcuna garanzia di un corretto svolgimento perché abbandonati alla disciplina di un’altra legge: quella di natura.
L’affidamento è la base del contratto sociale, linfa vitale d’ogni ordinamento giuridico. In questo discorso di limiti sociali / culturali si inserisce la bioetica: il singolo vive in una società e la stessa esistenza di quest’ultima porta con sé la presenza di vincoli emotivi e razionali. Il tema della dignità, anche se necessita di un continuo adeguamento al mutare della società, rimane il simbolo di quell’angoscia costruttiva che deve spingere i “soci” a ricercare continuamente nuovi punti di incontro e accordo.
La nostra società, italiana ed europea, è riuscita a percepire il terribile errore commesso dalle culture totalitarie nel recente passato e affermare che l’individuo deve essere sempre considerato come soggetto e fine, pena il venire meno della sua dignità e della società di cui è parte.
Se si indossano le lenti che questo breve scritto ha cercato di costruire…. il fine stesso del metodo, superficialmente descritto in questo breve articolo, può essere sinteticamente individuato nell’imperativo categorico, di “kantiana memoria”:
AGISCI IN MODO DA TRATTARE L’UMANITÀ’, SIA NELLA TUA PERSONA, SIA IN QUELLA DI OGNI ALTRA, SEMPRE ANCHE COME FINE E MAI SEMPLICEMENTE COME MEZZO.
Note
[0] ENGELHARDT JR., Manuale di bioetica, trad.it., Milano, 1991.
[1] D’AGOSTINO, Bioetica, III ed. ampliata, Torino, 1998, 72.
[2]D’AGOSTINO, La sanzione nell’esperienza giuridica, Torino 3ª ed., 1993, 118 ss : « La libertà che l’uomo può sperimentare, infatti, non è una libertà assoluta, che non è chiamata a rispondere a nessuno del suo esercitarsi, esse è sempre una libertà finita, cioè una libertà che non può mai prescindere dall’esistenza altrui. Come l’esistenza è in realtà coesistenza, così la libertà è in realtà compossibilità delle libertà.».